Introduzione
Viviamo in periodo storico in cui nei social, si sente sempre più parlare dell’impatto potente che la fotografia ha sulla dimensione emotiva delle persone. Per questo motivo, in questo articolo, ho deciso di approfondire il tema della fotografia terapeutica e chiarire la confusione che si crea con la fototerapia. Definire, infatti, la fotografia come forma di terapia può sicuramente destare dubbi e resistenze in chi cerca una figura professionale a cui affidare il proprio benessere.
Prima di continuare la lettura dell’articolo, ho alcune domande per te.
Ti sei chiestə cosa si nasconde dietro le fotografie che scatti?
Perché fotografi una particolare scena o persona?
Cosa attira la tua attenzione?
Le fotografie, oltre ad essere istantanee della realtà, sono frammenti di vita vissuta intrisi di significato, sono veicolo di sensazioni, ricordi, percorsi della memoria e quindi un ponte tra la persona e il suo mondo interiore.
È in questo senso che il potere terapeutico della fotografia rende questo strumento fortemente trasformativo da un punto di vista psicologico, emotivo e anche percettivo.
Ma cerchiamo di approfondire meglio.
Cos’è la fotografia terapeutica e come si utilizza?
Fotografia Terapeutica = Fotografia COME terapia. (J. Weiser)
Judy Weiser definisce la fotografia terapeutica come l’uso di pratiche fotografiche messe in atto dalle persone stesse all’intento di contesti in cui non si sta svolgendo alcuna terapia con l’obiettivo di affrontare, osservare, trasformare tematiche specifiche come l’auto-esplorazione, l’auto-indagine, incrementare l’autostima ecc…; può anche essere utilizzata in contesti didattici, formativi, educativi senza un obiettivo di cura.
L’utilizzo della fotografia terapeutica è del tutto personalizzato, la persona può scegliere di giocare con la fotografia per approfondire la conoscenza di sé, la relazione di sé con l’altro e il mondo o per elaborare un vissuto doloroso. La persona può fotografare se stessa, dei luoghi, raccogliere immagini o ripescare anche vecchie foto negli album di famiglia. In questo senso la fotografia terapeutica permette di sperimentare il qui e ora creativo per entrare in contatto con il proprio sé. Tutto ciò che viene fotografato ma anche, e soprattutto, escluso è una questione di scelta. Una scelta che può rivelarci qualcosa che fino a quel momento non avevamo preso in considerazione.
In questo processo espressivo ed esplorativo con la fotografia terapeutica non c’è spazio per la perfezione perché tutto ciò che serve è lasciarsi andare e fluire liberamente.
Fotografare se stessə come forma di terapia.
Jo Spence
Una pioniera di questa definizione è sicuramente Jo Spence, fotografa e artista. Quando Jo Spence si ammalò di cancro al seno decise di utilizzare la fotografia come strumento di “cura” per esplorare il suo mondo interno e la sua immagine. Il suo lavoro “The Crisis Projects 1982-1992” mostra i vari stadi del cancro al seno, cercando di mostrare un’immagine femminile diversa da quella che costantemente veniva mostrata e idealizzata dalla società.
“Mi resi conto con orrore che il mio corpo non era fatto di carta fotografica, né era un’immagine, o un’idea, o una struttura psichica… era fatta di sangue, ossa e tessuti.
Alcuni di loro ora sembravano cancerosi. E io non sapevo nemmeno dove si trovasse il mio fegato!”
Qualche anno dopo essere guarita dal tumore al seno le diagnosticarono la leucemia.
Jo Spence consapevole che non c’era più molto da fare decise di realizzare la sua ultima serie: “The final project”.
In questo ultimo progetto si nota l’evoluzione del suo stile fotografico, piuttosto che fotografare il suo corpo in deterioramento iniziò ad utilizzare bambole e maschere ma anche vecchi autoritratti, sovrapponendo materiali vecchi e rovinati, superfici secche e paesaggi, creando nuove opere.
Da questo progetto di Joe Spance si può dedurre che la forza catalizzatrice di un lavoro di fotografia terapeutica non è dovuta tanto alla sua validità artistica ma al processo che risiede dietro alla sua creazione.
Fotografare se stessi è certamente un atto terapeutico, in cui la persona può esplorare ed esprimere se stessa senza interferenze esterne.
Cristina Nùñez
Cristina Nùñez, artista-fotografa autodidatta spagnola, da anni utilizza l’autoritratto come strumento auto-terapeutico. Il passato di Cristina è stato doloroso e colmo di sofferenza a causa di un passato da tossicodipendente e prostituta che racconta con tranquillità e trasparenza. Qui puoi approfondire la storia di Cristina.
Negli anni ‘80 la fotografia diventa uno strumento di esplorazione ed espressione di sé, una catarsi del suo dolore, la voce per rielaborare la sua esperienza.
Anna Fabroni
Infine, un altro esempio di utilizzo della fotografia in un contesto non clinico, è la produzione fotografica di Anna Fabroni, “Costole” (2004).
Anna è un’ex modella che anche grazie all’utilizzo della fotografia è riuscita a vedersi dall’esterno, a vedere com’era veramente, con anoressia, e a ricostruire pezzo dopo pezzo la sua identità personale. In tutto questo processo riparativo, fu di fondamentale importanza l’incontro con il fotografo, Francesco Morgillo, che dopo averle scattato un servizio fotografico, le propose di scattarsi delle foto da sola con la sua macchina fotografica.
Così tra il tra il 2001 e il 2004, ha realizzato una serie di autoritratti dando vita al progetto “Costole”.
Fotografia terapeutica è anche fotografare gli altri e il mondo.
La fotografia terapeutica, come ti ho scritto all’inizio di questo articolo, non è solo fotografare se stessi ma anche scattare gli altri e il mondo, o addirittura raccogliere e rielaborare immagini.
Emanuele Camerini
Una tecnica utilizzata dal fotografo Emanuele Camerini nel suo progetto fotografico “Notes for A silent Man”.
In questo suo progetto l’autore utilizza la fotografia come un mezzo di espressione attraverso il quale “mettersi a nudo” e affrontare (rivivere) una questione a lui molto intima, la relazione con il padre e la sua difficoltà ad esprimere con le parole ciò che provava nei suoi confronti.
Lo fa attraverso fotografie di se stesso, di luoghi a “loro” familiari e di vecchie foto ripescate negli album di famiglia. Progettato, realizzato e terminato il lavoro decide di inviarlo a suo padre.
È così che l’autore, sperimentando il ruolo di creatore-attore e spettatore, ha rincontrato se stesso e forse anche il sé più intimo di suo padre. Il suo lavoro è diventato un libro pubblicato da Witty Kiwi nel febbraio 2016.
La fotografia è terapeutica?
Pur essendo profondamente terapeutico esplorarsi e analizzarsi personalmente con l’utilizzo della fotografia (fotografia-come-terapia), l’autoterapia non è la soluzione definitiva. E infondo lo so io, ma lo sai anche tu che stai leggendo.
L’autoterapia è una trappola mentale per razionalizzare i tuoi problemi, ma tu non hai bisogno di questo.
La parola “terapia” deriva dal greco antico “therapeia” e significa “servizio, culto; cura, trattamento”; ma se utilizzata in un contesto generico – diverso da quello medico – assume il significato di “avere cura”, di supporto e non di guarigione.
Ma la fotografia terapeutica – così come tutte le artiterapie – è una modalità espressiva che può affiancare e non sostituire il percorso terapeutico o di supporto psicologico per apportare benessere alla persona. Uno strumento espressivo aggiuntivo che agisce a livello sia individuale che sociale, come coppia, famiglia, comunità.
È terapeutica ma c’è un rischio
Il rischio che c’è dietro l’abuso di questa frase è quello di far credere che basta scattarsi un autoritratto, farsi scattare un ritratto o realizzare un progetto di fotografia autobiografica per ritornare a essere una persona emotivamente serena e piena di amore per sé.
La cura richiede tempo, ascolto empatico e uno spazio giusto per attivare e rielaborare esperienze personali significative sotto la guida di un professionista, con competenze cliniche, che ti accompagna a stare nella scomodità del vuoto.
Porre l’accento sul termine terapia (intesa come processo trasformativo) implica una responsabilità professionale: la responsabilità di possedere un approccio informato al trauma con la consapevolezza che le sole competenze artistiche, e non cliniche, potrebbero riattivare e riacutizzare ferite di natura traumatica.
La fotografia terapeutica può essere dolorosa: l’utilizzo della fotografia in tutte le sue sfaccettature può essere anche devastante, struggente, angosciante, può far emergere idee rimosse nel passato, provocare perplessità sulle proprie relazioni, smuovere e destabilizzare l’equilibrio emotivo.
E per questo che la fotografia da sola non basta.
È terapeutica ma è necessario un supporto
Se durante il processo creativo avverti blocchi, resistenze o sensazioni di disagio, ti consiglio di interrompere il lavoro e rivolgerti a uno psicologo o psicoterapeuta di fiducia.
Ti dico questo perché anche se la fotografia è per tutti non è la cura per tutto.
Non è la fotografia che cura ma la relazione!
La relazione terapeutica tra te e la persona alla quale scegli di affidarti. Un legame terapeutico in cui la fotografia diventa l’oggetto di transizione tra te e il tuo vissuto, tra te e l’altra persona.
La competenza di un clinico (psicologə o psicoterapeuta) è essenziale per individuare delle situazioni problematiche, per rielaborare vissuti/emozioni/sentimenti che sono emersi durante il lavoro fotografico e, soprattutto, per lavorare sulla complessità psicologica, emotiva e corporea legata al trauma.
La stessa Ulla Halkola, psicoterapeuta finlandese, sostiene che le sessioni o i percorsi di fotografia terapeutica dovrebbero essere facilitati da un professionista con formazione nell’ambito della salute mentale, educativo o sociale.
Scegliere la fotografia come strumento di indagine personale, come strumento per riacquisire la tua autostima o come strumento per accettare il tuo corpo è una tua responsabilità.
Sei tu, io, noi che abbiamo la responsabilità del nostro processo di cura.
La responsabilità di comprendere che la fotografia fa parte del processo di cura ma non è la cura.
Sei tu che hai la responsabilità di scegliere la persona che può avere non solo le competenze artistiche ma anche e soprattutto la capacità di saper gestire quello che la fotografia potrebbe far emergere con conseguenti ripercussioni sul tuo benessere.
Per chi è la fotografia terapeutica?
La fotografia terapeutica è per tutti ma soprattutto per chi ama la fotografia come mezzo espressivo. Se sei tra gli appassionati di fotografia, ricordati però che non è importante avere delle conoscenze pregresse; padroneggiare la tecnica può essere solo un valore aggiuntivo. Ma attenzione a non fare l’errore che ho fatto io in passato: farmi influenzare dalla perfezione estetica!
Ci sono comunque dei casi in cui può essere efficace utilizzare la fotografia come terapia, ad esempio per persone che:
- Faticano ad esprimere o condividere verbalmente ciò che sentono
- Incontrano difficoltà a rappresentare simbolicamente un concetto, un’idea, un valore (difficoltà a simbolizzare)
- Hanno bisogno di riflettere su alcune tematiche personali o relazionali
- Vogliono approfondire la percezione che hanno di sé o del proprio corpo
- Sentono di voler elaborare un lutto o una perdita importante
- Vogliono ricostruire o rinarrare visivamente la loro storia personale o relazionale
- Si sentono pronti per cambiare prospettiva su alcuni aspetti del proprio vissuto personale o relazionale
- Desiderano analizzare aspetti specifici a cui, in passato, non avevano dato importanza
Quali sono i benefici della fotografia terapeutica?
Come ti ho ampiamente riportato in queste righe, l’obiettivo della fotografia terapeutica non è di tipo curativo ma di conoscenza e benessere: uno strumento di empowerment.
Desidero però elencarti anche quelli che ritengo essere i 10 migliori benefici che si possono ottenere con un lavoro attraverso la fotografia:
- Facilita la comunicazione di ciò che può risultare difficile esprimere a parole (es. vissuti di vita personale) e ne permette anche la condivisione
- Migliora la conoscenza personale, facendo acquisire una maggiore consapevolezza di sé
- Stimola un processo di cambiamento, favorendo l’abbandono della propria comfort zone
- Favorisce l’inclusione sociale e riduce lo stigma sociale, soprattutto in situazione di emarginazione, neuro-divergenze, disabilità e razzismo
- Favorisce il dialogo costruttivo in contesti di gruppo e comunitari, permettendo ai partecipanti di conoscersi e scoprirsi, di condividere idee e valori ma soprattutto di dare voce al punto di vista della persona senza giudicarlo
- Fa emergere la parte più intima e privata di sé, concedendo alla persona un’opportunità per esprimere la propria personalità e raccontarsi in maniera più sicura e autentica
- Consente di vedere dall’esterno e riconoscere ciò che si sta attraversando, facilitando l’elaborazione del dolore vissuto e l’espressione – per immagini – di possibili strategie per reagire e tornare a vivere
- Imparare a vedere le cose da un altro punto di vista e con un altra prospettiva per aprirsi, se necessario, alle sfide del cambiamento
- Sostenere il percorso riabilitativo: contribuisce all’ascolto, a dare voce a quella malattia o sofferenza psichica che li opprime, alla gestione delle proprie emozioni e alla ricostruzione di un’identità che sentono aver perduto.
- Può avere un ruolo attivante e stimolante sia a livello sensoriale che sensoriale, in particolare negli anziani
Lavorare con le fotografie dunque permette alle persone di essere partecipi della propria vita e della realtà.
La mia esperienza con la fotografia terapeutica?
Da anni, oltre ad essere psicologa, sono una fotografa autoritrattista e utilizzo l’autoritratto come strumento di continua ricerca, affermazione e controllo di me stessa. In questo articolo ti racconto come per anni ho continuato a fotografarmi senza sapere che la fotografia sarebbe diventata il mio modo di curarmi.
Ho veramente preso consapevolezza di come potevo “dare ascolto a me stessa” con la fotografia a Novembre 2019.
Quell’anno, a Siena, si svolgeva il Siena International Photo Awards e decisi di partecipare ad un workshop esperienziale intitolato “Conoscersi con la fotografia” (quel giorno non sapevo ancora che da lì a breve ci avrebbero “rinchiusi” per il lockdown e messo faccia a faccia con noi stessi…ma questa è un’altra storia).
Ciò che, però, ha fatto la differenza sono stati i due workshop esperenziali che mi hanno accompagnato durante il lockdown:
Di Stanze: Sogni e Fotografia per attraversare la pandemia con Marilena Pisciella
Un workshop di fotografia terapeutica e sogno durante il quale, insieme agli altri partecipanti del gruppo, come dice Marilena: ci siamo “legati insieme nei sogni per tenerci uniti alla paura”. Durante il workshop Marilena ci ha guidati verso l’espressione e l’elaborazione delle paure e del trauma che in quel momento stavamo vivendo rispetto al Covid 19 attraverso una sua modalità personale che consisteva nel tenere sotto il cuscino un taccuino dei sogni, e legare al polso un filo che all’altro capo aveva una matita. Questo filo diventava simbolo del legame tra interno ed esterno perché, dal letto, si prolungava fino al di fuori della finestra della camera.
La mia fotografia selezionata per la pubblicazione del progetto, dal titolo “La luce che è verso di sé attenua la rigidità dando voce alle emozioni”, è questa:
Workshop completo The Selfportrait Experience di Cristina Nuñez.
Ti ho parlato di Cristina e del suo metodo precedentemente.
Io stessa, durante il lockdown, ho fatto esperienza del suo metodo in maniera molta intensa per più di 3 mesi. Un workshop organizzato in 3 moduli dedicati all’esplorazione dell’identità: IO – IO E L’ALTRO – IO E IL MONDO.
Un percorso intensivo che ha fatto emergere vissuti dolori, ha aperto ferite e mi ha permesso di buttare fuori emozioni forti che, da tempo, avevo bisogno di far emergere.
Durante questi lavori, anche io, sono stata supportata dalla mia Terapeuta perché la fotografia terapeutica da sola è rischiosa!
Una delle foto presenti nel mio progetto fotografico dal titolo “Nessun titolo” è questa:
Queste è invece una parte della riflessione che una partecipante del workshop ha dedicato al mio lavoro:
“Vedo un continuo conflitto tra dover/voler uscire e la paura/necessità di venire fuori…”
“Poi, però, continuo a guardarla e sembra che si stia sciogliendo qualcosa dentro di lei, come se fosse arrivata al limite e finalmente pianga. Ha tenuto i denti stretti fino a questo momento e ora finalmente dice “Basta!”. I segni del dolore si fanno vedere e lei, finalmente lascia andare…”
Se sei interessata alla visione di alcune pagine dei miei due progetti, scrivimi pure a info@silviaprevitera.it e sarò lieta di condividerle con te.
Dove mi ha portato la fotografia terapeutica.
Durante queste esperienze creative, ho scoperto la presenza di alcuni pattern simbolici che si ripetevano, così ho ripreso in mano alcuni vecchi lavori e attraverso il supporto di una terapeuta specializzata all’uso della fotografia in terapia ho iniziato a leggerli in modo più profondo.
La fotografia è diventata ad oggi il mio momento terapia.
Da allora, dopo aver sperimentato le potenzialità di questo strumento, ho continuato a studiare e a formarmi in questo campo; promuovendo l’utilizzo della fotografia come mezzo di mediazione nei miei percorsi.
Grazie alle esperienze di cui ti ho precedentemente parlato, ho anche scoperto che alcune delle tecniche proposte le avevo già utilizzate nei miei lavori personali e nel mio lavoro da tirocinante psicologa, senza però comprenderne a pieno il motivo.
Probabilmente, fare uso della fotografia a sostegno del mio benessere e di quello altrui era la mia missione.
2020
Mi sono ufficialmente formata all’utilizzo delle Tecniche di Fototerapia.
2021
Ho ampliato questa specializzazione all’interno dell’Immagine Corporea.
2024
Ho acquisito l’abilitazione per il Metodo PhotoVoice.
Oggi
Sono sempre in continua formazione.
Concludo questo articolo dicendoti che, grazie alla fotografia e alla psicologia mi sono ricostruita nel tempo, come volevo io, lontana da quello che gli altri volevano per me.
Nel prossimo articolo approfondirò il tema della fototerapia per farti comprendere la differenza con la fotografia terapeutica.
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